Pfas Veneto, indagini ferme in Procura da tre anni nonostante l’allarme ambientale. ( collegamento con le navi dei veleni e rifiuti portati in Africa)
Andrea Tornago oggi sulFatto quotidiano nel raccontare la vicenda dell’inquinamento da Pfas http://www.ilfattoquotidiano.it/…/pfas-veneto-inda…/2521666/, ricorda che le navi dei veleni solcavano i mari con le stive piene di rifiuti tossici a metà degli anni ottanta vi erano anche rifiuti della Rimar ora Miteni. Tornago cita un documento presso la competente commissione parlamentare. Se andate a leggere quel documento frutto del lavoro d’inchiesta dei compagni/e di Democrazia Proletaria e dei militanti/e deiverdi scoprirete che in quelle navi non vi erano solo i rifiuti della Rimar/Miteni ma di molte altre aziende del vicentino, del Nordest. Sulla storia dei rifiuti della Rimar presenti nelle stive delle navi dei veleni nel 2013 in questa pagina postammo questo:I fili della storia, o meglio delle storie,nella memoria fanno strani percorsi. Rimangono lì, in un angolo remoto del cervello. Poi una storia che inizia nel 2013 fa recuperare dalla memoria il filo di un’altra storia avvenuta alla fine degli anni ottanta che si connette con i fatti del 2013.
Trissino e lo stabilimento Rimar, oggi Miteni, al centro oggi del caso d’inquinamento da sostanze perfluoro alchiliche e Port Koko in Nigeria, sono lontani migliaia di chilometri e sono dislocati in continenti diversi: Europa, Africa.
Eppure negli anni ottanta un fatto li avvicinò: le navi dei veleni;Cariche di rifiuti tossici dell’industria chimica europea, tra cui le peci fluororate della Rimar.
Così la storia viene raccontata da Andrea Palladino nel suo libro: “Bandiera nera. Le navi dei veleni, Manifesto libri.
Le spiagge di Koko:”nel giugno del 1988 il giornale nigeriano The Guardian pubblica un reportage dal porto della città di Koko. Viene rilevato un traffico immenso di rifiuti tossici, “abbandonati non lontano dalla spiaggia, in una zona abitata e senza nessuna sicurezza”. Ad avvisare il quotidiano furono gli studenti nigeriani che abitavano in Italia, che telefonarono ai giornalisti in Nigeria chiedendo di raccontare l’origine di quei rifiuti.
La reazione delle autorità nigeriane fu durissima. L’equipaggio della nave Piave- che nulla aveva a che fare con il traffico – fu sequestrato e in pochi mesi fu introdotta la pena di morte per i moderni pirati ambientali.
Secondo un rapporto del Trade Envirorment
Database-progetto della America University- almeno 54 persone furono arrestate in Nigeria dopo la scoperta delle discariche abusive create dagli italiani. In Italia però, nessuno venne condannato, neanche un solo giorno di reclusione.
L’esportazione illegale dei rifiuti verso la Nigeria era stata oraganizzata nel 1987 dalle attivissime Jelly Wax e Ecoline, le stesse aziende che avevano avvelenato le terre libanesi, organizzando il viaggio della Radhost. Una volta scoppiato il caso, il Parlamento italiano- grazie sopratutto al gruppo di Democrazia Proletaria, guidato da Edo Ronchi- discusse lungamente di questo nuovo episodiodi pirateria ambientale, il conto veniva presentato al nuovo governo. Solo per la bonifica, che era stata richiesta come risarcimento da parte del governo nigeriano, la cifra stimata era di almeno venti miliardi di lire.
Le scorie tossiche e nocive che avevano avvelenatole spiagge di Koko erano partite dal piccolo porto della darsena di Pisa alla fine del 1987.Come già era accaduto qualche mese prima a Marina di Carrara, anche in questo caso il traffico pericolosi è potuto avvenire anche grazie alla compiacenza di molte autorità. La prima autorizzazione viene firmata dal sindaco di Pisa il 2 settembre del 1987. Il documento è incredibilemente confuso: la nave che viene indicata come vettore è la Danix, battente bandiera danese, che risultava avere una capacità di 500 tonnellate. Il sindaco, nell’elencare i diversi carichi autorizzati, con relativo peso arriva al totale di oltre 32.000 tonnellate di rifiuti altamente tossici. Errori forse spiegabili con una confusione di virgole o uno scambio tra chilogrammi e tonnellate. Eppure tutto file liscio, senza nessun intoppo.
L’autorizzazione firmata dal sindaco non cita direttamente le aziende responsabili del carico e dell’esportazione del carico verso Koko, facendo riferimento esclusivamente ad una richiesta presentata il giorno prima dall’agenzia marittima Enrico Bonistalli di Livorno.Nel settembre del 1987 i casi Lynk e Radhost avevano già fatto conoscere le aziende Yelly Wax e Ecolife. Quindi una certa discrezione era sicuramente “opportuna”. Il gruppo di Democrazia Proletaria riesce a rintracciare presso il comando del Porto alla Darsena di Pisa e la cartella con le bolle di carico originali.la lista delle società produttrici è lunga e degna di nota: Ecomivil di Cuneo, Vendo Italy di Coniolo, Sofio di Genova, Co-par di Ivrea, Spinoglio di Casl Monferrato, Industrie Chimiche Baslini di Treviglio, Chemintor di Giomello, Alfa Chemical Italiana di Alamo (Pe), P.G.B di Campoligure, Colorificio Attiva di genova e Api spa di Mignanesco, sempre in provincia di Genova.
Una seconda autorizzazione arriva il 14 novembre 1987. L’agenzia che presenta la richiesta per l’esportazione di rifiuti, sempre la stessa, la Bonistalli di Livorno. Cambia la nave- sarà la Line , bandiera tedesca-e cambia la destinazione, almeno in questo primo documento. Il sindaco firma il nulla osta per un viaggio verso il porto libero libero di Sulina in Romania. Le aziende coinvolte anche in questo caso sono tutte del nord Italia e, in molti casi, i trasportatori erano già concosciuti e diffidati in precedenza o sprovvisti delle autorizzazioni regionali, secondo le informazioni contenute nel dossier consegnato in Parlamento dal gruppo guidato dall’allora deputato Edo Ronchi.
I veleni destinati ad essere imbarcati ad essere imbarcati sulla Line provenivano dalla Casco Nobel srl di Piombino, Milano (residui organici), dalla Ferrara Antonino, di Robassanero, Torino( resine semipolarizzate), dalla Siat srl di Brescia ( residui di pesticidi), dalla Sochima spa di San MauroTorinese (residui organici), dalla Fratelli Cremonini snc di Alfi, Verona( decalite cenere, croste colore, magni da stampa) e dalla Rimar Chimica di Trissino, Vicenza( peci fluororate)………… La destinazione del secondo carico, originalmente diretto al porto libero di Sulina, cambierà in viaggio, diventando Koko, Nigeria…….”.
Trissino e lo stabilimento Rimar, oggi Miteni, al centro oggi del caso d’inquinamento da sostanze perfluoro alchiliche e Port Koko in Nigeria, sono lontani migliaia di chilometri e sono dislocati in continenti diversi: Europa, Africa.
Eppure negli anni ottanta un fatto li avvicinò: le navi dei veleni;Cariche di rifiuti tossici dell’industria chimica europea, tra cui le peci fluororate della Rimar.
Così la storia viene raccontata da Andrea Palladino nel suo libro: “Bandiera nera. Le navi dei veleni, Manifesto libri.
Le spiagge di Koko:”nel giugno del 1988 il giornale nigeriano The Guardian pubblica un reportage dal porto della città di Koko. Viene rilevato un traffico immenso di rifiuti tossici, “abbandonati non lontano dalla spiaggia, in una zona abitata e senza nessuna sicurezza”. Ad avvisare il quotidiano furono gli studenti nigeriani che abitavano in Italia, che telefonarono ai giornalisti in Nigeria chiedendo di raccontare l’origine di quei rifiuti.
La reazione delle autorità nigeriane fu durissima. L’equipaggio della nave Piave- che nulla aveva a che fare con il traffico – fu sequestrato e in pochi mesi fu introdotta la pena di morte per i moderni pirati ambientali.
Secondo un rapporto del Trade Envirorment
Database-progetto della America University- almeno 54 persone furono arrestate in Nigeria dopo la scoperta delle discariche abusive create dagli italiani. In Italia però, nessuno venne condannato, neanche un solo giorno di reclusione.
L’esportazione illegale dei rifiuti verso la Nigeria era stata oraganizzata nel 1987 dalle attivissime Jelly Wax e Ecoline, le stesse aziende che avevano avvelenato le terre libanesi, organizzando il viaggio della Radhost. Una volta scoppiato il caso, il Parlamento italiano- grazie sopratutto al gruppo di Democrazia Proletaria, guidato da Edo Ronchi- discusse lungamente di questo nuovo episodiodi pirateria ambientale, il conto veniva presentato al nuovo governo. Solo per la bonifica, che era stata richiesta come risarcimento da parte del governo nigeriano, la cifra stimata era di almeno venti miliardi di lire.
Le scorie tossiche e nocive che avevano avvelenatole spiagge di Koko erano partite dal piccolo porto della darsena di Pisa alla fine del 1987.Come già era accaduto qualche mese prima a Marina di Carrara, anche in questo caso il traffico pericolosi è potuto avvenire anche grazie alla compiacenza di molte autorità. La prima autorizzazione viene firmata dal sindaco di Pisa il 2 settembre del 1987. Il documento è incredibilemente confuso: la nave che viene indicata come vettore è la Danix, battente bandiera danese, che risultava avere una capacità di 500 tonnellate. Il sindaco, nell’elencare i diversi carichi autorizzati, con relativo peso arriva al totale di oltre 32.000 tonnellate di rifiuti altamente tossici. Errori forse spiegabili con una confusione di virgole o uno scambio tra chilogrammi e tonnellate. Eppure tutto file liscio, senza nessun intoppo.
L’autorizzazione firmata dal sindaco non cita direttamente le aziende responsabili del carico e dell’esportazione del carico verso Koko, facendo riferimento esclusivamente ad una richiesta presentata il giorno prima dall’agenzia marittima Enrico Bonistalli di Livorno.Nel settembre del 1987 i casi Lynk e Radhost avevano già fatto conoscere le aziende Yelly Wax e Ecolife. Quindi una certa discrezione era sicuramente “opportuna”. Il gruppo di Democrazia Proletaria riesce a rintracciare presso il comando del Porto alla Darsena di Pisa e la cartella con le bolle di carico originali.la lista delle società produttrici è lunga e degna di nota: Ecomivil di Cuneo, Vendo Italy di Coniolo, Sofio di Genova, Co-par di Ivrea, Spinoglio di Casl Monferrato, Industrie Chimiche Baslini di Treviglio, Chemintor di Giomello, Alfa Chemical Italiana di Alamo (Pe), P.G.B di Campoligure, Colorificio Attiva di genova e Api spa di Mignanesco, sempre in provincia di Genova.
Una seconda autorizzazione arriva il 14 novembre 1987. L’agenzia che presenta la richiesta per l’esportazione di rifiuti, sempre la stessa, la Bonistalli di Livorno. Cambia la nave- sarà la Line , bandiera tedesca-e cambia la destinazione, almeno in questo primo documento. Il sindaco firma il nulla osta per un viaggio verso il porto libero libero di Sulina in Romania. Le aziende coinvolte anche in questo caso sono tutte del nord Italia e, in molti casi, i trasportatori erano già concosciuti e diffidati in precedenza o sprovvisti delle autorizzazioni regionali, secondo le informazioni contenute nel dossier consegnato in Parlamento dal gruppo guidato dall’allora deputato Edo Ronchi.
I veleni destinati ad essere imbarcati ad essere imbarcati sulla Line provenivano dalla Casco Nobel srl di Piombino, Milano (residui organici), dalla Ferrara Antonino, di Robassanero, Torino( resine semipolarizzate), dalla Siat srl di Brescia ( residui di pesticidi), dalla Sochima spa di San MauroTorinese (residui organici), dalla Fratelli Cremonini snc di Alfi, Verona( decalite cenere, croste colore, magni da stampa) e dalla Rimar Chimica di Trissino, Vicenza( peci fluororate)………… La destinazione del secondo carico, originalmente diretto al porto libero di Sulina, cambierà in viaggio, diventando Koko, Nigeria…….”.
È un’altra storia italiana in cui le responsabilità sfumano fino a dissolversi. E alla fine resta solo un veleno insidioso e invisibile, che inquina l’ambiente in modo “persistente”. I Pfas, le…
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